lunedì 21 gennaio 2013

FT: Monti is not the right man to lead Italy

The financial crisis has faded in Italy but the economic crisis has been growing. There has hardly been a day without news of the credit crunch worsening, and a fall in employment, consumption, production and business confidence. Once again, a European government has misjudged the predictable impact of austerity. Having shown almost no growth for a decade, the Italian economy is lingering in a long and deep recession.
Like the other countries on the eurozone’s southern rim, Italy faces three options. The first is to stay in the euro and take on alone the burden of full adjustment. By this I mean both economic adjustment, in terms of unit labour costs and inflation; and fiscal adjustment. The second is to stay in the eurozone, contingent on shared adjustment between creditor and debtor nations. The third is to leave the euro. Successive Italian governments have tried a fourth option – stay in the euro, focus on short-term fiscal adjustment only and wait.

Since we know from economic history how such episodes end, option four will ultimately lead us back to options one, two or three. My favourite would have been the second: make euro membership conditional on symmetrical adjustment. But Mario Monti, Italy’s prime minister, did not stand up to Angela Merkel. He did not tell the German chancellor that his country’s continued engagement with the single currency would have to depend on a proper banking union with full resolution and deposit insurance capacity; a eurozone bond; and more expansionist economic policies by Berlin. In his interview with the Financial Times last week, Mariano Rajoy, the Spanish prime minister, demanded symmetrical adjustment – again, rather late, since Germany is already planning an austerity budget for 2014. In view of all political decisions already taken, the option of symmetrical adjustment is slowly receding.

So where does this leave Italy ahead of next month’s elections? As prime minister, Mr Monti promised reform and ended up raising taxes. His government tried to introduce modest structural reforms but they were watered down to macroeconomic insignificance. Having started as a leader of a technical government, he has emerged as a tough, political operator. His narrative has been that he saved Italy from the brink, or rather from Silvio Berlusconi, his predecessor. A fall in bond yields has played into this narrative, but most Italians know they owe this to another Mario – Draghi, president of the European Central Bank.

On the left, Pier Luigi Bersani, general secretary of the Partito Democratico, has supported austerity but has recently been trying to distance himself from those policies. He has also been more hesitant on structural reforms. His main campaign themes are a wealth tax, the fight against tax evasion, money laundering and gay rights. He says he wants Italy to stay in the eurozone. There is a marginal chance he will be more successful in standing up to Ms Merkel because he is in a better position to team up with François Hollande, the French president and a fellow Socialist.

On the right, the alliance of Mr Berlusconi and the Northern League has been behind in the polls but is making advances. So far, the former prime minister has had a good campaign. He has delivered an anti-austerity message that has struck a chord with a disillusioned electorate. He also keeps criticising Germany for its reluctance to accept a eurozone bond and to allow the ECB to buy Italian bonds unconditionally.

You could interpret this as an option-two stance: insist on symmetrical adjustment or get out. We know Mr Berlusconi only too well, however. He was a prime minister for long enough to have shaped such a debate much earlier. To become credible, he must produce a clear strategy that maps out the choices in detail. All we have now are television soundbites.

Judging from the latest opinion polls, the most likely election result is gridlock, perhaps in the form of a Bersani-Monti coalition of the centre-left, possibly with a centre-right majority in the Italian senate, where different voting rules apply. This would leave everyone, more or less, in charge. Nobody would have the power to implement a policy. Everybody would have the right to veto one.

If that were the case, Italy would continue to muddle through, pretending it had opted to remain in the euro but without creating the conditions to make membership sustainable. In the meantime, I would expect an anti-euro political consensus to emerge that would probably either win an outright majority in subsequent elections or trigger a political crisis with ultimately the same effect.

As for Mr Monti, my best guess is that history will accord him a role similar to that played by Heinrich Brüning, Germany’s chancellor from 1930 to 1932. He, too, was part of a prevailing establishment consensus that there was no alternative to austerity.
Italy still has a few choices open. But it has to make them.



http://www.ft.com/intl/cms/s/0/882bb27a-6166-11e2-957e-00144feab49a.html


giovedì 11 agosto 2011

LA RECESSIONE PEGGIORE - Galapagos IlManifesto

«E' tornata la paura», era il titolo di ieri
della Cnn a proposito del nuovo
crollo delle borse. Di sicuro è stata
un’altra giornata drammatica sui mercati di
mezzo mondo. Solo le piazze asiatiche - per
motivi di fuso orario - ne sono uscite indenni,
ma pagheranno con gli interessi oggi. E sicuramente
anche tutte le altre borse mondiali
seguiteranno a perdere. Qualcuno ha
scritto che l’andamento attuale delle borse
assomiglia al movimento dello yo-yo. Vero:
ma la risalita è sempre minore della discesa
e le quotazioni dei titoli seguitano a calare.
Questa volta, tuttavia, la crisi non affonda
nel disordine monetario e negli imbrogli delle
banche, come nel 2008, ma nella situazione
disordinata dell’economia reale. Anche
se il mondo paga ancora il conto - salato - di
quel disordine.
Se non la certezza, c’è l’aspettativa di una
nuova recessione. Se arriverà sarà peggiore
di quella appena alle spalle, sostengono molti
economisti.

Paghiamo il disordine dell’economia reale

E questo perché gli Stati non
hanno più cartucce: sono state
sparate per cercare di sopravvivere
alla crisi passata. Si è trattato di
aiuti giganteschi al sistema finanziario
per non farlo crollare. Operazione riuscita,
ma le casse sono state svuotate.
Di più: l’economia reale degli aiuti
stanziati ha ricevuto solo le briciole. Il
risultato è stata una gigantesca redistribuzione
dei redditi che ha peggiorato
la situazione economica e le prospettive
di decine di milioni di persone. Alle
quali, ora, viene chiesto di pagare il
conto.
Nei guai sono quasi la metà dei paesi
dell’euro; nei guai è Obama che dovrà
tagliare la spesa sociale. Nei guai, se
l’economia globale ricadrà in recessione
o rallenterà corposamente, finiranno
anche la Germania e la Cina che, come
il Giappone, vedranno le esportazioni
crollare. Larga parte della popolazione
mondiale starà ancora peggio e
vedrà i ricchi arricchirsi sempre di più,
perché l’attuale tendenza delle politiche
economiche mondiali è fortemente
classista.
Basta guardare ai provvedimenti programmati
e presentati - senza vergogna
- alle parti sociali dal governo Berlusconi.
Ma anche alla politica degli
Stati uniti, della Bce e a quella dell’Unione
europea e monetaria. Stiamo
parlando di un modello unico di società
nella quale alla flessibilità del lavoro
si cerca di accompagnare uno Stato sottile,
perché al profitto devono essere lasciate
praterie immense. E si vuole privatizzare
soprattutto dove il pubblico
va bene. Ieri Mediobanca ci ha detto
che i profitti delle imprese pubbliche
nel 2010 sono andati a gonfie vele,
mentre i privati arrancano. Una buona
occasione - con l’alibi del debito pubblico
- per privatizzare.
La stessa indagine di Mediobanca - a
proposito dell’incapacità dell’imprenditoria
italiana - afferma che gli investimenti
italiani all’estero si rivolgono a
paesi a basso costo del lavoro per produrre
merci a basso valore aggiunto destinate
ai paesi emergenti e non a quelli
industrializzati. Come possano i sindacati
allearsi con questi «padroni»
non è dato capire. «Per il bene dell’Italia
», dicono in molti. Forse, ma non
per il bene degli italiani.

giovedì 4 agosto 2011

SENZA FIDUCIA - Galapagos, Il manifesto

SENZA FIDUCIA

Il Financial Times di ieri ha chiuso un editoriale con una frase lapidaria: «nessuno è indispensabile», né Berlusconi, né Tremonti. Il ministro dell'Economia finora aveva goduto di buona fama. Il problema è che all'improvviso è scoppiato lo scandalo Milanese e Lionel Berber, il direttore del giornale, non ha perdonato a Tremonti la scarsa moralità nel pagare cash, cioè in «nero», l'affitto dell'appartamento di via Campo Marzio. Insomma, la fiducia è venuta meno. Non solo a Berber: il governo viene accusato di non essere in grado di affrontare la crisi finanziaria (ma non stavamo meglio degli altri?) e non avere il coraggio di affrontare l'opinione pubblica, mentendo sulle scelte di politica economica. Questo spiega l'attacco all'Italia di questi giorni. C'è la speculazione, ma gli speculatori fanno il loro «mestiere» e attaccano utilizzando anche sfruttando il caos greco o quello degli Stati Uniti. La speculazione anticipa le tendenze. Una tendenza certa è che questo governo è morto e, quando c'è un morto, i vivi sono disposti a sbranarsi.
Oggi Berlusconi parlerà alla Camera: ripeterà le stesse promesse, farà la sceneggiata, largamente preparata, annunciando che in mattinata il Cipe ha sbloccato 7,5 miliardi di fondi Fas che serviranno allo sviluppo. Annuncerà il lancio della Banca del Mezzogiorno, grandi investimenti nel Sud, citando cifre enormi (100 e più miliardi) che ha già promesso in decine di occasioni. Ma Berlusconi non è il solo responsabile in questo governo di marionette che - tanto per dirne una - vota la fiducia sulla manovra correttiva e due settimane più tardi si accorge che i ticket sono una vera schifezza.
In realtà è tutta la manovra che fa schifo, a cominciare dai tempi. Solo uno sprovveduto (Berlusconi non lo è) o un opportunista (Berlusconi lo è) poteva non capire che l'Italia era da settimane sotto tiro e che una manovra in due tempi era assolutamente sbagliata: rinviare al 2014 il risanamento dei conti è stato un errore fatale che ha fatto emergere tutta la debolezza del governo e la fragilità dell'economia. O meglio, la «furberia» di lasciare in eredità al futuro governo i tagli pesantissimi, come accaduto in passato.

giovedì 14 luglio 2011

Sull'onda anomala degli spread - di Galapagos "Financial Times: l'Italia naviga ancora sull'orlo della tempesta"

EDITORIALE di Galapagos
ECONOMIA
Sull'onda anomala degli spread



L'editoriale con il quale ieri mattina il Financial Times ha commentato la manovra varata da Berlusconi sottolineando che c'è una certa confusione sui numeri e che mancano vere riforme, ha anche profeticamente anticipato: «l'Italia naviga ancora sull'orlo della tempesta». E ieri, per tutta la giornata, l'Italia ha «ballato» sui mercati internazionali sballottata dalle violente onde degli spread. Semplificando: i titoli del debito pubblico italiano (Btp) vengono giudicati parecchio meno affidabili di quelli (a parità di durata) della Germania, chiamati Bund. Il risultato è che il rendimento che debbono pagare i Btp italiani è molto più alto di quello che pagano i bund. Questo differenziale (lo spread) ieri è salito a 247 punti base, ovvero il 2,45%. Semplificando, i Btp italiani a 10 anni pagano tassi di interesse superiori al 5%, mentre quelli tedeschi, più affidabili, sono poco sopra il 3%. Non è cosa da poco per un paese che ha un debito pubblico di quasi 1.900 miliardi: la spesa crescente per interessi su una mole così enorme di debito rischia di vanificare tutti i sacrifici che impongono le manovre correttive.
In soccorso del governo, o meglio dell'economia italiana, è sceso in campo anche Mario Draghi. Per il governatore di Bankitalia, la manovra è un passo importante per il consolidamento dei conti e il pareggio di bilancio è credibile. Draghi ha affermato: «Vedo dai dispacci di agenzia che tensioni scaturiscono da timori di alcuni analisti circa le condizioni dei conti pubblici dell'Italia. La manovra di finanza pubblica decisa dal governo, come detto ieri dal presidente Trichet, costituisce un passo importante per il consolidamento dei conti pubblici. L'anticipo delle misure rende credibili il raggiungimento del pareggio del bilancio nel 2014 e l'avvio di una tendenza al calo del rapporto debito/Pil».
La tensione sui mercati è andata avanti tutta la giornata e in Italia ha penalizzato anche Piazzafari: l'indice Mib ha chiuso con un crollo di quasi il 3,5%, percentuale, di molto superiore alla flessione registrata delle altre borse europee. E nel ciclone sono finiti anche i tassi sui Btp che hanno registrato una pessima risalita fino, appunto, a toccare un spread di 247 punti base con i Bund. Ovviamente la tendenza alla crescita degli spread è generalizzata: in sofferenza è il debito sovrano di tutti i paesi marginali. Non a caso un altro paese sotto tiro è la Spagna i cui tassi sui «decennali» sono vicini alla soglia del 6%. Indubbiamente, alla base dell'aumento degli spread ci sono motivazioni esogene: la forza della Germania, la speculazione che non dà tregua, la debole crescita dell'economia Usa confermata ieri dal dato sul nuovo aumento del tasso di disoccupazione che ha spinto gli investitori a puntare sulla Germania perché in queste condizioni la Bce non aumenterà i tassi. Tuttavia la speculazione trova alimento anche in motivazioni endogene, cioè interne all'Italia.
Olte quello che scrive il Financial Times (che non è poco) occorre aggiungere che la vicenda di Marco Milanese che coinvolge indirettamente Tremonti non è un buon viatico. Allo stesso tempo non è positivo il dato diffuso ieri dall'Istat sul calo dela produzione industriale in maggio, a conferma che la crescita italiana è troppo lenta e, nonostante gli annunci del governo, non sono stati programmati efficaci interveti di stimolo. Magari anticipando la stangata al 2012, utilizzando parte dei soldi non a risanamento dei conti pubblici, ma in incentivi alla domanda. Però Tremonti, che dà del cretino a quasi tutti, ha affermato che la Ue non ci chiedeva di anticipare la manovra e quindi lui non l'ha anticipata. Forse qualcuno dovrebbe spiegargli la differenza tra un contabile e un ministro dell'economia.
Intanto non si placa la polemica sul ruolo delle tre grandi agenzie di rating che con i loro giudizi offrono ampi spazi alla speculazione. Un giudizio durissimo su Mooody's, Fitch e S&P è arrrivato ieri da Josè Manuel Gonzalez-Paramo, membro del Comitato esecutivo della Bce: le agenzie internazionali di rating «erano parte del problema prima della crisi e continuano a esserlo». Poi ha aggiunto: «Penso che ci sia un consenso a livello globale sulla necessità di renderci indipendenti dalle agenzie di rating e fare i compiti a casa per conto nostro, e cioè sulla base della nostra analisi» dei trend economici. Carol Sirou, presidente di S&P per l'Europa, ha indirettamente replicato affermando, in un'intervista al quotidiano francese Libération che «non sono le agenzie di rating a creare i problemi: le nostre valutazioni riflettono le difficoltà strutturali di un Paese». Molti però osservano che la società di rating in passato hanno commesso grossolani errori di valutazione e, cosa più grave, non sono (o non vogliono) spostare la loro attenzione dal breve al medio periodo. In altre parole non tengono mai conto degli sforzi di correzione dei conti dei paesi. L'esempio più recente è quello portoghese: l'abbassamento del rating è avvenuto subito dopo il varo di una manovra durissima.
Intanto, ieri è aumentato il costo dei contratti derivati (cds, credit default swap) per assicurarsi contro il rischio sul debito pubblico italiano di riflesso alle tensioni: per assicurare 10 milioni di debito pubblico italiano contro il rischio di default sono necessari 243.000 dollari contro i 219.000 dollari di giovedì. I cds a cinque anni sull'Irlanda sono saliti a 900 punti base, (+36 punti su giovedì) e quelli sul Portogallo 1.005 punti (+38), entrambi a nuovi record, mentre quelli sulla Spagna sono saliti di 16 punti a 318. In controtendenza la Grecia con un costo dei cds in calo di 19 punti ma sempre a livelli altissimi (2.100 punti base, ovvero il 21%). I cds portoghesi hanno superato quota 1.000 giovedì all'indomani del declassamento del rating da parte di Moody's.
Come coda politica, si deve aggiungere la promessa del Pd: «Lunedì presenteremo un'interpellanza urgente per chiedere al governo di avviare l'iniziativa in sede europea per la sospensione immediata delle vendite allo scoperto di cds, degli strumenti derivati e dei titoli speculativi sui debiti sovrani». Per Francesco Boccia, coordinatore delle commissioni economiche del gruppo Pd alla Camera «è evidente che in un momento così critico per i mercati e per la debolezza politica del governo italiano, il nostro debito rischia di diventare il terreno preferito degli speculatori». 

mercoledì 24 novembre 2010

Chi salva chi? Un paese in trappola, Galapagos - aiuti all'Irlanda e creditori scomodi

Chi salva chi?
Un paese in trappola
Galapagos  


Chi salva chi? Nel caso dell’Irlanda non è una domanda retorica, soprattutto alla luce di quello che è accaduto per la Grecia e accadrà per il Portogallo. Le ultima informazioni ci dicono che il governo di Dublino, che per settimane aveva puntato i piedi, è stato costretto a cedere aprendo le porte al piano di salvataggio Ue. Centesimo più, centesimo meno, arriveranno 100 miliardi di euro. Visto che la popolazione dell’Irlanda è meno di 5 milioni di abitanti significa che ogni cittadino (neonati compresi) sarà gravato di un debito di oltre 20mila euro che, grosso modo, è anche il debito pubblico (il 65,5% del Pil a fine 2009) pro capite in Irlanda. Fino a due anni fa Dublino era un paese «virtuoso»: a fine 2007 il rapporto tra debito e Pil era al 25% e la spesa pubblica (36,8% del Pil) era perfettamente bilanciata dalle entrate pubbliche. Insomma, un paese senza problemi. Nel 2008, però, è esplosa la crisi globale e l’Irlanda l’ha pagata molto cara in termini di economia reale e di crisi finanziaria: il paese nel suo piccolo è una sintesi perfetta del tracollo globale. L’Irlanda, infatti, aveva cavalcato il boom edilizio e le banche avevano contribuito a gonfiare la bolla. Favorite in questo anche dalla politica monetaria espansiva della Ue che il governo conservatore non è stato capace di bilanciare con un politica fiscale un po’ più restrittiva. Quello che è accaduto negli ultimi due anni è noto: le banche sono andate in apnea e lo stato è intervenuto con decine di miliardi per evitare fallimenti a catena; il deficit pubblico, nullo nel 2007, è salito al 14,4% nel 2009 e quest’anno potrebbe passare la soglia del 30%; il debito pubblico dal 25% del Pil è salito al 65,5% nel 2009 e quest’anno sfonderà il muro dell’80%.Una situazione ghiotta per la speculazione che ha cominciato a prendere di mira il debito sovrano dell’Irlanda e anche il debito delle banche. Il risultato è stato una crescita abnorme dei tassi di interesse e un balzo di quello che viene definito rischio paese, cioè il costo dei credit default swap, l’assicurazione che deve essere pagata per avere la certezza di poter ricevere indietro i soldi prestati allo stato. In tutto questo i normali cittadini non c’entrano proprio; il dissesto è stato provocato dall’ingordigia del sistema finanziario. Eppure la gente comune è stata chiamata a pagare i costi della crisi: prima con una manovra correttiva da 15 miliardi (3000 euro a testa) e ora, per ottenere il salvataggio dalla Ue, con una nuova manovra triennale che dovrebbe sfilare dalle tasche dei cittadini altri 15 miliardi di euro nel prossimo triennio. Ma a cosa serviranno questi soldi? Ufficialmente per ridare stabilità al sistema finanziario e ai conti pubblici. Certo, ma serve una traduzione di questa affermazione: i miliardi serviranno a rimborsare i creditori dell’Irlanda. Cioè le banche che hanno acquistato debito pubblico e privato. E, in prima fila, ci sono le banche britanniche e quelle tedesche. Come nel caso della Grecia siamo di fronte a una enorme partita di giro: la Ue, la Bce e il Fondo monetario danno soldi non per favorire lo sviluppo, ma per consentire al sistema bancario di riavere i suoi soldi. Una truffa alla quale un solo paese ha avuto la forza di ribellarsi: l’Argentina che non ha esitato a dichiarare default, il fallimento. Buenos Aires vide giusto, mentre i paesi con governi conservatori che dovrebbero avere nel Dna la possibilità del fallimento, non lo dichiarano. E non per salvare i propri cittadini, ma esclusivamente il capitale finanziario.  

Manifesto 23-11-2010